La divisione si deve qualificare, ai fini dell'imposizione indiretta, come atto dichiarativo


  • Imposta di registro all'1% sulle divisioni

    La divisione, ai fini dell’imposizione indiretta, resta qualificabile come atto avente natura dichiarativa e non come negozio avente effetti traslativo-costitutivi. All’atto, quindi, deve restare applicabile l’imposta di registro all’1%, di cui all’art. 3 della tariffa, Parte I del testo unico dell’imposta di registro.
    Così il Consiglio nazionale del notariato che, con lo studio n. 183-2019/T, approvato lo scorso 12 dicembre dalla commissione studi tributari, ha analizzato l’impatto di un recente indirizzo giurisprudenziale (Cassazione, Sezioni Unite - sentenza 25021/19) sul trattamento tributario della divisione.
    La decisione della Suprema Corte indicata, con cui i giudici con l’ermellino hanno qualificato la divisione ereditaria in termini di atto a efficacia traslativa e non dichiarativa, può generare un impatto molto invasivo sull’imposta di registro applicabile a tale atto, ancorché la sentenza non tratti i profili tributari dell’operazione ma l’applicabilità alla divisione delle norme in tema di atti aventi a oggetto immobili abusivi.
    Quindi, affermare la natura traslativa dello scioglimento della comunione rischia di stravolgere il presupposto in base al quale è stata costantemente tassata la divisione.
    La giurisprudenza e la prassi ministeriale hanno stabilmente applicato all’atto di divisione l’imposta di registro all’1%, prevista dall’art. 3 della Tariffa, Parte I, allegata al dpr 131/1986 per gli “atti di natura dichiarativa” (conformi, risoluzione 310927/1988, Consiglio nazionale del notariato, studio n. 24-2015/T e Cassazione n. 17512/2017).
    Soltanto nel caso in cui, a un condividente, siano assegnati beni per un valore complessivo superiore alla quota che gli spetterebbe, la parte eccedente deve essere considerata una mera “vendita”, ai sensi del primo periodo, del comma 1, dell’art. 34 del dpr 131/1986.
    L’impostazione della Suprema Corte, condivisibile eventualmente dal punto di vista civilistico, poiché la divisione attribuisce certamente al condividente un diritto diverso dalla comproprietà, può, quindi, risultare onerosa, se trasposta sul piano fiscale.
    Tra le numerose eccezioni, gli autori rilevano che se la divisione avesse effetto traslativo, in quanto avente per oggetto immobili, la stessa avrebbe dovuto essere trattata con la disciplina della trascrizione, ai sensi degli artt. 2643 e 2644 c.c., non dovendo richiedere una specifica previsione, mentre il legislatore ha dovuto dettare una specifica disposizione (art. 2646 c.c.), in dipendenza della diversa funzione espletata dalla pubblicità e dall’inapplicabilità alla divisione delle regole, di cui all’art. 2644 c.c..
    Si rileva, in aggiunta, che la divisione attua una conversione della quota ideale in una porzione concreta e che, pertanto, in forza del relativo “apporzionamento” si verifica il consolidamento in titolarità esclusiva a favore di ciascun condividente e non già, si dice testualmente, in forza di una dismissione “ab externo” rispetto ai comunisti da considerare, al contempo, aventi e danti causa, con la conseguenza che la divisione, in linea di principio, non produce un incremento patrimoniale del condividente, avendo una mera natura dichiarativa.
    Pertanto, l’operazione, pur a dispetto dell’inversione concettuale dei giudici di legittimità, non può essere sottratta dall’ambito impositivo dell’imposta di registro per i negozi aventi natura dichiarativa; la specialità del sub-ordinamento, infatti, esige questa opzione, sia per preservare la coerenza e la congruenza interne allo stesso sub-ordinamento, sia per giustificare una tassazione rispettosa dei principi dettati dalla carta costituzionale, in merito alla capacità contributiva dei cittadini e alla ragionevolezza. Fabrizio G. Poggiani - ITALIA OGGI(riproduzione riservata)
     


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