Per le operazioni ritenute soggettivamente (od oggettivamente) inesistenti l’onere della prova grava sull’Agenzia delle entrate. La Corte di Giustizia europea, infatti, ha da tempo stabilito che è la stessa Amministrazione finanziaria che deve dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi posti a base della pretesa.
L’Agenzia delle entrate sta recentemente notificando a imprese (siano esse individuali che collettive) gli inviti con cui viene richiesto di fornire la documentazione riferibile a determinati altri contribuenti con le quali la ditta ha avuto rapporti commerciali, cui segue, a prescindere da quanto documentato, l’invito a comparire, di cui all’art. 5-ter del d.lgs. 218/1977, avente ad oggetto l’accertamento con adesione, di cui al d.lgs. 218/1997.
Si contesta all’imprenditore di non aver posto in essere determinate operazioni (operazioni oggettivamente inesistenti) o che la controparte (cedente o prestatore) sia mancante (operazione soggettivamente inesistente); l'emissione di fatture per operazioni inesistenti determina la debenza dell'Iva esposta in fattura, da parte del cedente o prestatore dell'operazione, e il disconoscimento del diritto alla detrazione dell'imposta in capo al presunto cessionario o committente dell'operazione.
Come previsto dal comma 7, dell’art. 21 del D.P.R. 633/1972 “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti (…) l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura"; tale disposizione è, quindi, l’espressione del principio di cartolarità del tributo, tale per cui, se l'imposta è indicata in fattura, essa risulta in ogni caso dovuta all'erario, con l’ulteriore aggiunta che, in assenza di uno dei requisiti essenziali per l'esercizio del diritto alla detrazione dell'imposta (quindi l'effettivo acquisto di beni e/o servizi), ai sensi del comma 1 dell'art. 19 del decreto Iva, il cessionario o committente è privato di tale diritto.
Il principio di cartolarità dell'Iva, di cui al citato comma 7 dell'art. 21 citato opera anche con riferimento alle operazioni inesistenti sotto il profilo soggettivo con la conseguenza che il soggetto emittente le fatture è, in ogni caso, debitore dell'imposta ivi indicata (Cassazione, ordinanza n. 8177/2020) mentre per le operazioni la cui inesistenza è di carattere oggettivo (vale a dire che le operazioni sono totalmente fittizie e/o simulate), è sempre dovuta l'imposta indicata in fattura (Cassazione, sentenza n. 20598/2020 e ordinanza n. 16494/2020).
L’Agenzia delle entrate, però, basa generalmente la propria pretesa sulla base di istruttorie tarate sui cedenti e/o prestatori di servizi di cui i cessionari e/o committenti non conoscono i contenuti e che si basano, per esempio, sull’omissione di dichiarazioni dei redditi o Iva, sui dati dello spesometro e, peggio ancora, sulla conoscenza di esportazioni di capitali in altri Paesi, anche a fiscalità privilegiata.
Sulla base di queste informazioni, quindi, l’agenzia emette gli atti indicati sostenendo l’assenza delle operazioni passive o l’assenza, addirittura, del cedente o del prestatore, recuperando ingenti importi per imposte dirette e Iva e relative sanzioni.
Una recente ordinanza (Cassazione n. 24565/2023), che ne richiama un’altra precedente (Cassazione n. 25113/2020), ha affermato che è da escludere la configurabilità della “buona fede” dell’utilizzatore (cessionario o committente) di una fattura relativa a una operazione economica che egli non può non sapere di non aver mai effettuato ma altra recente affermazione (Cassazione, ordinanza 14656/2023) ha statuito che in caso di operazioni soggettivamente inesistenti (ma anche oggettivamente inesistenti) ai fini Iva, la prova che grava sull’Amministrazione finanziaria non riguarda solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale.
Infine, su tutte, la Corte di Giustizia UE (sentenza 21/06/2012, cause C-80/11 e C-142/11), in merito a una operazione oggettivamente inesistente (quindi non soggettivamente inesistente) ha affermato che il diniego del diritto alla detrazione (quindi il recupero) dell’Iva è una eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce nel paradigma comunitario del tributo, con la conseguenza che spetta all’A.F. dimostrare “adeguatamente” gli elementi oggettivi per il diniego della detrazione, quindi non soltanto utilizzando proprie informazioni o inventariando le carenze strutturali (assenza di sede, cespiti e dipendenti), giacché tali elementi sono da ritenere privi di una vis dimostrativa autosufficiente. Fabrizio Giovanni Poggiani - ITALIA OGGI (riproduzione riservata)
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